Romanzo storico

Qui continuiamo a pubblicare estratti dalle memorie di Ferdinando Pascolo.

Dall’autore

… Anch’io ho avuto le mie vicissitudini, alcune così dure che preferivo non parlarne, anche per non richiamarle alla memoria. Tuttavia, i miei figli hanno insistito a lungo per farmele raccontare e io a lungo ho esitato, perché una cosa è raccontare di tanto in tanto un episodio ricordato per effetto di qualche passeggera suggestione, ben altro è trascrivere i ricordi di una vita, riversare sulle pagine fatti ed emozioni, costringendo la mente a darvi un ordine. A maggior ragione, ho sempre esitato in quanto i miei racconti si riferiscono perlopiù alla guerra, a sofferenze inimmaginabili e a cataste di cadaveri; di queste ultime, comunque, non voglio parlare. Né voglio parlare delle tante inutili crudeltà di cui sono stato testimone. La guerra è una cosa da cui dovremmo tutti rifuggire; dovremmo non parlarne più affinché esca definitivamente dalle menti degli uomini. Ma questo purtroppo non so se potrà mai accadere. …

A scuola di sopravvivenza

La steppa è stata per noi anche una maestra di vita e di sopravvivenza. C’erano diverse cose che bisognava imparare rapidamente, perché non erano solo le pallottole e gli accidenti della guerra che ci potevano uccidere. C’era anche la minaccia più subdola del freddo. Un attacco improvviso dell’avversario e la routine della quotidianità avevano in comune il fatto che il destino di ognuno era legato a filo doppio con il destino dei commilitoni. Insieme ci si poteva salvare, insieme si poteva morire e ogni morto ne poteva trascinare altri con sé.
Lo capivi bene quando dovevamo coricarci nelle tende. Erano piccole e basse e dentro ci si stava in quattro. Ognuno portava nello zaino una tela larga cinquanta centimetri e un paio di picchetti; se mancava un uomo, la tenda non si poteva costruire. Insieme ad altri tre ne abbiamo montata una nella steppa, in pieno inverno. Era un freddo terribile. Ci stendemmo a terra, uno a fianco all’altro e i pidocchi presero a tormentarci e noi a grattarci. Nel cercare sollievo muovevamo la tenda favorendo l’ingresso agli spifferi gelati. “Se vogliamo riuscire a scaldarci e a dormire – dissi ai miei compagni – dobbiamo stare fermi. Lasciamo che i pidocchi mangino; quando saranno sazi dormiranno anche loro.” Ci stringemmo uno accanto all’altro, immobili, con lo zaino sotto la testa. La stanchezza ci aiutò a ignorare freddo e parassiti e ci addormentammo.
Al mattino, quando aprii gli occhi, ebbi l’impressione di essere chiuso dentro una scatola di ghiaccio. Il telo della tenda era impermeabile e il nostro fiato tiepido, durante il sonno, aveva formato una condensa che si era subito congelata. Tutto l’interno era coperto da uno strato di brina bianca e scintillante.
Nei libri di storia si parla solo di vittorie e di sconfitte, di date e di luoghi, non si racconta invece della precarietà con cui ogni soldato doveva ogni giorno fare i conti. La dieta militare era quel che era e l’assenza di frutta e verdura mi aveva provocato una forte infiammazione alle gengive, tanto che mi sanguinavano parecchio e sembrava non esserci rimedio. Poi ho visto i russi mangiare semi di girasole: l’ho fatto anch’io e dopo un po’ mi sono risanato, non so se grazie ai semi o a che altro. In ogni caso, osservare i comportamenti della gente del posto e trarne insegnamento era un esercizio utile. …

I rumeni e il mio duello con un aereo

Avevo finito le sigarette e cercavo qualcuno per fare un baratto, ma mi accorsi che ne eravamo tutti senza. “Prova dai rumeni”, mi suggerì qualcuno, sapendomi sempre pronto a spostarmi in quel territorio che ormai conoscevo bene. “Loro, di sigarette ne hanno. Forse è l’unica cosa che non gli manca e le scambieranno volentieri.”
La linea del fronte si snodava senza fine lungo l’ansa del Don. A nord c’erano i tedeschi, poi gli italiani e, una decina di chilometri più a sud, i nostri alleati della Romania. L’inverno non era ancora arrivato. L’idea ovviamente mi piacque. Misi nello zaino alcune pagnocche e inforcai la Wolsit, una straordinaria bicicletta che ci eravamo portati dietro dall’Italia e partii. Il Don scivolava alla mia destra oltre l’argine, ma non mi è mai venuta voglia di vederlo. La campagna russa si distendeva piatta tutt’intorno. Non c’era anima viva. Il bisbiglìo del vento e il tintinnio ritmico della catena erano i miei unici compagni, fino a che non cominciai a sentire un rumore diverso, sordo, costante e sempre più forte. Veniva dal cielo. Un aereo stava arrivando alle mie spalle. Non ebbi dubbi: era un caccia e stava picchiando su di me. Reagii immediatamente: la bici e lo zaino volarono da qualche parte e io mi buttai disteso nel campo più vicino in cerca di riparo. Dal caccia partì una raffica improvvisa. Fu un rumore secco e ritmato. La strada venne disegnata da una striscia di polvere e piccoli crateri slabbrati. L’aereo passò assordante sopra la mia testa. Passato lo spavento, mi rialzai, rimisi lo zaino sulle spalle e ripresi a pedalare. Lo guardai mentre saliva e impostava la larga virata che lo avrebbe riportato dove mi trovavo.
Capii che non mi dovevo muovere: l’avevo visto da vicino, aveva le mitragliatrici fisse. Erano buone per tagliare in due un camion o una macchina, ma non per centrare un uomo solo. Ero sicuro che non mi avrebbe potuto colpire e accettai la sfida. Lo guardai mentre arrivava in picchiata, mentre iniziava a sparare: i colpi incominciavano decine di metri davanti a me. La linea tratteggiata delle pallottole avanzava sulla terra, ritmata da un suono secco e terribile. Mi bastò spostarmi di lato per uscire dalla traiettoria e vedere i proiettili sfilarmi accanto, micidiali e innocui al tempo stesso.
Il caccia volò di nuovo sopra la mia testa e riprese la lunga risalita. Intanto, io avevo ricominciato a pedalare. Ancora una volta, lo vidi allontanarsi e virare per tornare su di me, che oramai ero pronto a riceverlo. Gli urlai: “Oggi è il tuo giorno fortunato!” poiché in quell’occasione non avevo con me il fucile, altrimenti avrei potuto tirarlo giù quando, alla fine della picchiata, mi passava a pochi metri. Ma anche con il fucile, forse l’avrei lasciato andare. Non avevo mai avuto la disgrazia di dover fare un confronto estremo con nessuno e volevo continuare così, fino a che fosse stato possibile, pur trovandomi, come in questo caso, in grande vantaggio.
Così il terzo incontro finì come il precedente e io risalii sulla bicicletta. Poi il pilota non sparò più: forse aveva finito le munizioni o si era reso conto che stavo giocando con lui e si era stancato di quella caccia inutile e assurda. Alla fine si allontanò e sparì all’orizzonte. “Per cavarmela – pensai mentre pedalavo – mi è bastato scartare di fianco. Nella vita, però, non sempre è possibile né onorevole farlo”. Quando arrivai al campo dei Romeni, capii subito cosa avesse voluto dire il mio compagno riferendosi a loro. Non avevo mai visto dei militari tanto male in arnese: sembravano vestiti di stracci. Al loro confronto, noi eravamo equipaggiati da re. Mi fecero pena. Feci lo scambio, quasi in perdita. Li ringraziai e ripresi la strada del ritorno. La vista di quei ragazzi mi aveva reso malinconico. Non potevo immaginare che li avrei rivisti sotto una luce tanto diversa da lasciarmene il segno.
Stavo attraversando la città di Vorosilovgrad in macchina insieme ad altri quattro o cinque soldati, non ricordo per quale missione. Era cambiata la stagione, faceva molto freddo e io mi ero messo addosso due passamontagna, uno che mi copriva la gola e la bocca, l’altro il naso e le orecchie. Bisognava ricordarsi di toccare spesso sia il naso sia le orecchie per controllare che avvertissero ancora il contatto con le mani. Sapevamo che le estremità del volto si congelavano in poco tempo, senza che si avvertisse alcun dolore. Se questo accadeva, non c’era più niente da fare.
Si riteneva che i russi avrebbero sfondato le linee dell’Asse e avrebbero preso il possesso della città entro breve e quindi i rumeni si misero a trasferire un gruppo di loro prigionieri. Conducevano una fila di uomini stanchi, affamati e pieni di freddo. Era evidente che questi russi non avrebbero potuto camminare a lungo e, difatti, quando uno non ce la faceva più e cadeva con le ginocchia a terra, un soldato rumeno lo affiancava e lo finiva sparandogli. Questa penosa colonna aveva lasciato le macabre tracce del suo passaggio nella strada che stavamo percorrendo. I miei compagni di viaggio si chiedevano come avremmo trovato il prossimo morto: col sedere per aria o a pancia in su? In quelle situazioni drammatiche ed estreme, si finisce anche per farsi coraggio ridendo della morte degli altri. A ripensarci, è una cosa orribile. Abbiamo seguito questa marcia per un breve tratto, ma credo che nemmeno uno dei prigionieri sia giunto a destinazione. Non capisco perché i rumeni si siano comportati in quel modo. Sapevano che c’era la ritirata, che stavamo perdendo, che c’era la disfatta dei nostri eserciti. Allora perché farli prigionieri e ammazzarli? Erano disarmati e senza nulla da mangiare. Non so se quegli spari definitivi fossero l’obbligatoria esecuzione di un ordine, oppure segno di mancanza di pietà o se, al contrario, fosse il modo di porre termine all’atroce, seppur breve, agonia che sarebbe seguita all’impossibilità di camminare. Spero che non siano stati segno di indifferenza. Bisogna sempre riflettere prima di sopprimere una vita, qualunque essa sia. È inevitabile uccidere per autodifesa. Ma solo in questi casi. Non si può né cacciare né uccidere per divertimento, non si può provare piacere se si provoca sofferenza. Bisogna rispettare e non odiare, nemmeno il nemico.